giovedì 16 marzo 2017

A colloquio con… José Miguel Pérez-Sierra

«Penso che non esistano professioni prive di difficoltà: nella nostra ce ne sono alcune, indubbiamente, ma ci sono anche grandi soddisfazioni. Il “peso” più grande da sopportare, per me, è passare buona parte dell’anno lontano della famiglia; la cosa che amo di più, invece, è la musica in sé. È bello viaggiare e conoscere persone meravigliose di tanti posti diversi, ma la musica è il vero motore di tutto. Solo una grande passione può aiutare a superare tutte le difficoltà e gli inconvenienti»

Spagnolo di Madrid, tra i direttori più interessanti della sua generazione, José Miguel Pérez-Sierra continua con successo una carriera internazionale di primo piano. E tra pochi giorni un altro importante debutto lo attende: quello sul podio del Teatro Massimo Bellini di Catania dove tra il 19 e il 26 marzo dirigerà Manon Lescaut di Puccini in una produzione che porta la firma, per la regia, di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi da un allestimento di Pier Francesco Maestrini.



Per l’occasione, ho avuto il piacere di parlare con lui di quest’importante appuntamento, dei prossimi impegni e del suo percorso artistico.

(© Argazki Press - J. DanaeRecortada)
«Puccini è sempre stato uno dei miei compositori preferiti: lo sento molto vicino e mi risulta molto naturale dirigere la sua musica; le sue partiture, però, che sono ricche di dettagli, richiedono sempre un grande lavoro a monte», mi dice, aggiungendo che si sta preparando per quest’appuntamento « con la stessa dedizione e lo stesso rigore con i quali ho affrontato le altre opere di Puccini».

Il suo avvicinamento alla musica è avvenuto grazie allo studio del pianoforte: cosa l’ha portata a questa scelta? A casa mia c’è stata sempre una grande passione per la musica; quindi, questo primo approccio è stato del tutto naturale. Mia sorella maggiore già studiava pianoforte quando sono nato e sin da piccolissimo passavo molto tempo ad ascoltarla. .

Ha avuto l’onore di studiare con José Ferrandiz, allievo di Claudio Arrau: che insegnamento le ha lasciato? Ferrandiz era un magnifico professore: ha ereditato da Arrau una tecnica del peso fantastica, che era quella che cercava di trasmettere ai suoi allievi. Grazie a lui ho imparato a suonare il pianoforte utilizzando il mio peso come leva, senza nessuna tensione nelle braccia, nei polsi e nelle mani. Il beneficio non è soltanto fisico: anche il suono che si ottiene dallo strumento diventa molto più bello e possente.


Com’è avvenuto, poi, il passaggio alla direzione d’orchestra? Tramite la musica da camera: mi rendevo conto che più grande era il gruppo, più mi divertivo facendo musica. Così un giorno ho pensato: perché non cercare di far musica da camera col gruppo più grande possibile, cioè, l’orchestra? E così iniziai a studiare direzione nel 2001, a 19 anni.

Un momento importante della sua carriera è rappresentato dalla partecipazione, nel 2006, al “Rossini Opera Festival” di Pesaro come più giovane direttore sul podio del ROF. Cosa ricorda di quell’esperienza? Avevo 24 anni... è stato il mio debutto internazionale. Il Viaggio a Reims è un opera complessa, ma ricordo che l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna fece, per l’occasione, un lavoro fantastico, e che il cast era straordinario: Olga Peretyatko, Davinia Rodríguez, Michele Angelini, Savio Sperandio. È bello vedere, 11 anni dopo,  lo sviluppo delle carriere di tutti questi artisti.

Il suo debutto assoluto sul podio, invece, è avvenuto nel 2005 sul podio dell’Orchestra Sinfonica della Galizia. Ricordo ancora il programma: la sinfonia “Oxford” di Haydn e la Serenata per Archi di Tchaikovsky. La cosa più bella è l’ottimo rapporto che si è creato con l’orchestra, che dura ancora oggi.

C’è qualche altro momento della sua carriera che ricorda con particolare emozione? Ce ne sono parecchi, sempre legati ai miei compositori di riferimento. Ho ricordi bellissimi della mia Madama Butterfly al Liceu di Barcellona con Alagna e Hui He e anche di quella a Torre del Lago nel 2014. Ricordo con grande emozione anche il mio primo Falstaff, al Teatro Verdi di Trieste, due anni fa, e poi tanti concerti sinfonici. Ad esempio, il mio debutto con l’Orchestra Nazionale di Spagna lo scorso novembre con i Quattro Pezzi Sacri di Verdi e il Poema dell’Estasi di Skrjabin, le diverse sinfonie di Mahler e Bruckner, i poemi sinfonici di Richard Strauss.


Tra i suoi punti di riferimenti c’è Gabriele Ferro, con il quale ha studiato e del quale è stato assistente al Teatro San Carlo di Napoli, al Massimo di Palermo e al Teatro Real di Madrid. Cosa le ha trasmesso il maestro Ferro? Senza dubbio Ferro è uno dei miei “padri” musicali. è un direttore con una tecnica formidabile, e una vastissima cultura. L’ho seguito per 4 anni ed è stata un’esperienza preziosa. Abbiamo ancora un bellissimo rapporto.

Ha lavorato anche come assistente di Alberto Zedda e, insieme a lui, ha diretto il “Centre de Perfeccionament Plácido Domingo” del Palau de les Arts di Valencia. Quando si parla di Alberto Zedda, viene subito in mente la figura di Rossini. Non a caso, il Maestro ha dato vita a una delle operazioni più importanti di restauro culturale del secolo scorso: il recupero di opere serie di Rossini, uno dei più rilevanti interventi musicologici nella storia. Con la sua polivalenza di direttore d’orchestra, musicologo, docente e direttore artistico, possiamo dire che, a livello mondiale, Zedda è un vero e proprio colosso culturale della scena musicale. La sua straordinarietà consisteva nell’essere in grado di arricchire ciascuno dei suoi ambiti professionali con le competenze in altri campi. Come direttore si approcciava  allo spartito con rigore musicologico e con una consapevolezza stilistica pura, una capacità di pochi, e grazie alla sua esperienza di insegnante aveva la capacità di comunicare in maniera colta e “vicina” con orchestre, solisti e cantanti. Tutto questo rende Alberto Zedda un personaggio unico e irripetibile, un essere umano eccezionale. Per quanto riguarda il mio rapporto professionale e personale con il Maestro, sono stati 14 anni d’incontro di arte e vita. Zedda musicologo è stato il mio nesso più prezioso e diretto con i compositori del passato e con la loro musica; Zedda interprete è stato il mio ponte più “visionario” verso il futuro, mentre lo Zedda docente è stato, per me, un insegnante esigente e generoso, con il quale ho avuto il privilegio di condividere innumerevoli conversazioni. Infine, Zedda direttore artistico è stato colui che si è fidato di me fin dal principio, e che ha aperto le porte della mia professione. E infine c'è Alberto. Alberto era un amico, un mio grande amico. Uno dei migliori amici che ho avuto e che mai avrò.

Altri suoi maestri sono stati Gianluigi Gelmetti e Colin Metters: cosa le hanno lasciato? Gelmetti mi ha dato tante cose, a livello musicale e tecnico, ed è anche un grande preparatore a livello mentale: grazie a lui ho scoperto dentro di me la determinazione che bisogna avere per fare questo mestiere. Con Metters ho avuto solo occasione di fare una breve masterclass, ma ricordo che mi ha fatto riflettere molto a livello tecnico, e mi ha aiutato a diventare più flessibile.


Una collaborazione molto proficua è stata anche quella con Lorin Maazel. Maazel per me è stata una “luce definitiva”... L’ho conosciuto a Valencia nel 2009, mentre lavoravo con Zedda al Centro Plácido Domingo, e ho capito subito che dovevo cercare d'imparare il più possibile da lui. La sua è stata forse la tecnica più possente della storia della direzione, non aveva bisogno di parlare, neanche di provare direi, per riuscire a trasmettere a un’orchestra assolutamente tutto quello che voleva. La sua maniera di far musica era sempre fresca e mai scontata, il suo suono orchestrale inimitabile. Per non parlare della sua memoria e del suo orecchio perfetto. Veramente un genio unico! Dopo il suo periodo a Valencia, ho continuato ad andare a trovarlo quando potevo a Monaco di Baviera, dove aveva assunto la direzione musicale dei Münchner Philharmoniker. I nostri incontri, le nostre conversazioni, e tutta la musica che ho avuto il privilegio di vedergli dirigere, continuano a illuminare la mia attività musicale.

Quali sono, secondo lei, le doti fondamentali di un buon direttore d’orchestra? Probabilmente tutte quelle che elencavo parlando del Maestro Maazel, ma a mio giudizio la qualità che fa veramente la differenza è la tecnica. Un direttore deve essere un “virtuoso” del braccio e della bacchetta, come qualunque strumentista dell’orchestra lo è del suo strumento. Altrimenti, se non “possiedi” questa qualità differenziale, perchè dovresti salire su un podio? Bisogna capire il rapporto tra il gesto e il suono, sentire come le tue braccia lo producono, come lo gestiscono, e come possono modificare la musica in qualunque momento. Per questo ci vuole una formazione specifica che, purtroppo, a volte si sottovaluta.



Quante ore al giorno dedica allo studio? Studio tutti i giorni, ma non un numero fisso di ore: a volte son due ore, a volte son quattordici!!! Dipende dal momento e dalle esigenze del repertorio cui mi sto dedicando in quel momento.

Come affronta generalmente una nuova partitura? Le capita di ascoltare delle registrazioni di quello che dovrà dirigere? Cerco di avere un rapporto diretto con la partitura, non condizionato da altre versioni e dalle tradizioni, che cerco di giudicare in maniera oggettiva: a volte son belle e vanno tenute; altre volte, invece, è meglio “pulirle”. Per quanto riguarda le registrazioni, non le cerco e neanche le evito: come dicevo, cerco semplicemente di non farmi condizionare, ma, se capita, ascolto con piacere le registrazioni dei grandi direttori.

Fondamentale è il rapporto che si instaura da subito con l’orchestra, in particolare con il primo violino: le è mai capitato di non trovare un’intesa? Fortunatamente nei miei 12 anni di attività professionale non c’è stato mai nessun problema. Cerco sempre di stabilire un’atmosfera collaborativa; invece di stabilire un ordine gerarchico, mi piace diventare un collaboratore di cui l’orchestra ha bisogno per fare musica tutti insieme. Non a caso, sono arrivato alla direzione tramite la musica da camera, e per me dirigere un concerto o un’opera non è altro che un atto cameristico “amplificato”.

Molto spesso i tempi per le prove di un’opera sono ristretti: come si riesce, allora, in poco tempo, a stabilire un’intesa con l’orchestra e/o con i cantanti? Tramite la tecnica, che ti permette di creare quest’intesa con orchestra e solisti. Effettivamente, a volte c’è la fortuna di avere tante prove: altre volte, invece, i tempi sono veramente ristretti. Possono persino chiamarti per fare una sostituzione direttamente in recita: senza la tecnica non si potrebbero affrontare situazioni del genere.




Ha diretto moltissime orchestre internazionali: ce n’è qualcuna con la quale si è creata un’intesa particolare? In Spagna mi trovo molto bene con orchestre come la Sinfonica di Euskadi, la Sinfonica di Galicia, o l’Orchestra Nazionale. In Francia ho una bellissima collaborazione con l’Orchestre National de Lorraine; in Italia son diverse le orchestre con cui mi trovo veramente bene...

Dirige sia il repertorio sinfonico che operistico: ha una preferenza? Come cambia la direzione? Penso che un direttore completo non possa che fare entrambi i repertori: si arricchiscono a vicenda. Personalmente, li amo tutti e due, con la stessa passione. A livello direttoriale, l’opera dipende più dalla tua conoscenza delle voci e dalla tua capacità tecnica di tenere l’insieme buca-palcoscenico, mentre nel sinfonico è più importante la tua capacità di mostrare l’architettura della gran forma musicale e di tirar fuori il meglio dell’orchestra durante le prove. Anche se, lo ripeto, questi due repertori si arricchiscono a vicenda: non potrei concepire l’uno senza l’altro.

Quale repertorio ama di più, sente più congeniale a lei? Amo tutta la musica degli ultimi 600 anni, ma, indubbiamente, la musica scritta tra il 1850 e il 1930 è quella che sento più vicina e che amo di più dirigere, sia lirica che sinfonica.




C’è un’opera o una sinfonia che non ha ancora diretto e che amerebbe dirigere? Certo: non vedo l’ora di dirigere la 9ª Sinfonia di Mahler e l’Otello di Verdi.

Quando non è in tournée, com’è una sua giornata-tipo? Divento un normalissimo padre di famiglia, anche se a volte lo studio mi obbliga a isolarmi anche a casa. Quando non è così, cerco di passare il più tempo possibile con mia moglie e mia figlia, e di andare a vedere le partite del Real Madrid, la mia altra grande passione!

Che rapporto ha con la critica musicale? Legge le recensioni? Mi succede come con le registrazioni, non le cerco ma nemmeno le evito. Ovviamente una critica positiva fa piacere, mentre una negativa no, ma in questi anni ho imparato a relativizzarle. Per non soffrire delle critiche negative, bisogna imparare a non godere troppo di quelle positive. Inoltre, il critico più feroce sono io stesso! Sicuramente senza una forte capacità di autocritica, è impossibile crescere come artista.


Quali sono i suoi prossimi impegni? Dopo la Manon Lescaut di Catania, dirigerò Il Signor Bruschino di Rossini a Strasburgo e poi Lucia di Lammermoor a Mahón. Quest’estate, invece, registrerò Aureliano in Palmira di Rossini per Naxos, e, successivamente, sarò al Municipal di Santiago de Chile e all’Opera di Montréal per due produzioni diverse di “Cenerentola”. Per quanto riguarda il sinfonico, in autunno sarò per un mese con la Sinfonica di Euskadi per fare diversi programmi di musica contemporanea e repertorio francese di Chausson e Debussy, e avrò occasione anche di tornare al magnifico auditorio dell’Arsenale di Metz per concerti con l’Orchestre National de Lorraine: sempre con loro debutterò, qualche mese dopo, Tosca e Carmen a l’Opera di Metz.

Che consigli darebbe a chi decide di intraprendere questa professione? Innanzi tutto, direi che è il mestiere più bello del mondo, ma anche uno dei più duri: bisogna dedicare anni e anni per acquisire tutte le competenze tecniche, musicali, culturali e umane che servono per essere direttore, e sapere che bisogna studiare tutta la vita. In cambio, però, un direttore fa per tutta la vita quello che ama. Ed è questa la “chiave”: l’amore per quello che fai. L’amore, in assoluto, come in quasi tutti gli ambiti della vita.

Adriana Benignetti


P.S. Per i video