giovedì 14 dicembre 2017

“Il pianoforte in salotto a Napoli nell’Ottocento”

da Il pianoforte a Napoli nell’Ottocento di Vincenzo Vitale (Napoli, 13 dicembre 1908 – Ivi, 21 luglio 1984)


A Napoli il salotto, nella seconda metà dell’ottocento, offriva all’osservatore di costume un campionario ricco degli esemplari più estrosi e inconsueti, non che d’Italia, d’Europa. La gamma coloristica e ambientale andava dal ‘basso (il pianterreno dei vicoli senza luce), abbondantemente fornito di cianfrusaglie, bambole di pezza e fiori finti, dove la chitarra e il mandolino erano di casa, fino al palazzo gentilizio, più o meno fatiscente, dove il pianoforte era despota.


Fu la borghesia a coltivare il prototipo del salotto napoletano. Vi troneggiava la dormeuse di velluto, contornata da poltrone, poltroncine e tabourets. Alle finestre tendoni e mantovane damascate proteggevano bianche e leggere cortine trapuntate di filets e di ‘orli a giorno’. Nella penombra il lampadario ‘a gocce’ faceva spiccare in qualche angolo una mensola su cui falsi o veri ‘Capodimonte’, inchinevoli e leziosi, simboleggiavano quelle danze che avrebbero chiuso la ‘periodica’ con la tradizionale ‘quadriglia’.


Regina di questi convegni era spesso l’accollatissima e domestica pianista, che eseguiva sul Boisselet verticale la Prière d’un vierge o la Rêverie di Rosellen. Perché sempre il pianoforte era il sostegno di queste riunioni mondane, sia che dovesse offrire ai convenuti delle chioccolanti esecuzioni della Bellissima di Coop, sia che servisse d’aiuto alla cantante «che aveva una notevole voce di soprano sfogato» e che si cimentava con celebri pezzi d’opera, giustificando le frequenti ‘stecche’ col raffreddore contratto il giorno precedente al bagno ‘Ma Santé’ di San Giovanni a Teduccio.


Il pianoforte a coda era tollerato nel salotto napoletano come un vecchio arnese pittoresco. E forse non a torto, trattandosi in generale di decrepiti Erard o fatiscenti Kaps, che un giorno costituirono l’emblema del progresso di quel meccanismo che, escogitato dall’italiano Bartolomeo Cristofori, fu captato da più tenaci ed attrezzati fabbricanti nordici.

Il pianoforte chic fu il verticale. Da quello a corde diritte e telaio di legno con meccanica ‘a baionetta’ all’altro a corde incrociate e telaio in ferro solennemente definito ‘gran formato’.

Su quelle tastiere d’avorio (anche le marche più rozze sdegnavano l’uso della cosiddetta ‘pastiglia’) scorsero fiumi di note: arpeggi, scale, trilli, ‘volatine’. Prima le candele di cera, poi quelle elettriche, simulanti anche lo sgocciolare del moccolo, illuminarono il leggio su cui troneggiava lo spartito della Parafrasi sul Mosè di De Meglio o le reminiscenze della ‘Sonnambula’ di Cerimele.



Il Rampserger di zia Annina era ‘gran formato’ ed aveva un pedigree di alta nobiltà: era tedesco. Tanto bastava per far zittire chiunque osasse accennare a qualche riserva sulla sua efficienza. Era fabbricato a Stuttgart, nome inciso in oro sul legno nero del coperchio e che zia Annina traduceva bonariamente in ‘Studiacarte’, supponendo che fosse la dizione germanica di leggio


Il pianoforte verticale era l’ornamento base del salotto, dunque. La nostra ingratitudine lo considera quasi grottesco. Ingiustizia somma. Il pianoforte del salotto dorato, dell’anticamera falso Impero o del boudoir liberty sovraccarico di bibelots e di portafiori, fu il polo d’attrazione di quanti vollero accostarsi alla musica. Abituati come siamo ad essere perseguitati dalla radio, a subire la suggestione, la violenza inarrestabile del televisore, schiavi inconsapevoli del condizionamento sadico ed irreversibile di questi mezzi di imposizione tecnologica, non possiamo ormai più immaginare la curiosità e l’interesse che destava l’esecuzione pianistica, fosse pure di Prima carezza di Costantino De Crescenzo, o quale potesse essere la rapinosa, accattivante esecuzione provocata dall’ascolto, quasi furtivamente, un pianoforte, sotto le finestre di un vico Stretto ai Miracoli al chiarore d’un lampione a gas, in una sera estiva: anche se la vittima dell’esecutore dovesse identificarsi nella Patetica di Beethoven. Oppure quanto sia stato sano incitamento al nostro senso critico indugiarci a seguire, in ore più meridiane, dal balcone che dava sul piccolo, moribondo giardino, le evoluzioni compiute dalla figlia del barone dirimpettaio, sul verticale Fratelli Federico a danno del Gazouillement de printemps di Sinding. E seguirne con ansia i tentativi insani di puntellare un’esecuzione che sarebbe dovuta essere pronta per la sera dell’onomastico paterno nella cornice d’un salotto già da alcuni giorni riassettato ed agghindato.

Negli anni fra i due secoli, i maestri del salotto napoletano furono Salvatore Coppola prima, e Gennaro De Sena, dopo. Del primo sentivo parlare in famiglia come d’un mito. Il suo valore d’insegnante era indiscusso e si concretava in fatto tangibile quando zia Annina sua discepola, magra, zitella, vestita di seta scura, con gonne a volants e colletto di tulle sostenuto da bacchettine di celluloide, si produceva in privatissime esecuzioni pianistiche serali alla quali furtivamente assistevo seduto su d’una poltroncina damascata. Zia Annina, trascurando ogni preliminare allenamento tecnico, attaccava di colpo la trascrizione per la sola mano sinistra di Casta Diva operata da Ernesto Becucci sull’immortale melodia belliniana.

Questa della mano sinistra fu una vera fissazione dell’ottocento. Grandi e piccoli estensori di pezzi fantastici furono suggestionati da questo espediente strumentale. Altrove, in queste pagine, è descritta la sorpresa che suscitava Teodoro Döhler quando faceva zittire l’orchestra per esibirsi in queste acrobatiche performances. E si è detto pure come Ferdinando Bonamici elaborasse molti e davvero difficili studi pianistici per la sola mano sinistra (non gli bastavano i grattacapi che, sempre più assillanti, il Circolo Musicale da lui fondato gli procurava!).

Gennaro De Sena è vivo nel ricordo di quanti lo conobbero e sono, come me, sopravvissuti. Era un pulitissimo e distinto signore, magro, ben vestito, di modi amabili e corretti. Lo guardavo con ammirazione e rispetto quando entrava in casa nostra per impartire lezioni a mia sorella Maria: la sola che fosse autorizzata ad intrattenere rapporti con Euterpe. Certe volte ‘sentivo’ la sua venuta. Lo immaginavo mentre saliva le scale e si accostava alla porta di mogano, orgogliosa di due pomi di ottone, e riconoscevo subito il suo modo particolare di premere il pulsante del campanello. Gli correvo incontro, chiedendogli di farmi assistere alla lezione: cosa che egli mi concedeva volentieri. Coltivava la speranza che i miei si decidessero, commossi da tanta infantile passione per il pianoforte, ad affidarmi a lui perché mi guidasse attraverso la selva insidiosa della tecnica. Ma né lui né io riuscimmo a convincere la mia famiglia circa l’importanza socio-culturale della musica. Ed io non potetti far altro che seguire le vicende didattiche di mia sorella, ostinatamente decisa a non portare a compimento lo studio del Départ des hirondelles del suo maestro, di Gennaro De Sena. Un pezzo che, a seguirne con gli occhi le avventure grafiche, pareva che si fossero riversate sul foglio tutte le necrologie listate a doppio lutto per la scomparsa del Commendator Cacace, tante erano le righe nere che correvano sorreggendo miriadi di note, da sinistra verso destra o dall’altro al basso del pentagramma. Mia sorella ci s’arrabattava su in maniera alquanto maldestra. E Gennaro De Sena, non potendo resistere a tanto strazio, si sedeva al pianoforte facendo cinguettare, tra passaggetti e scalettine, le sue hirondelles sul Ramsperger mezzo scordato e col mi bemolle sopracuto privo ormai di tutt’e tre i ‘cantini’ fatti saltare con un colpo più violento inferto al tasto da mia sorella in un momenti di stizza antipianistica.

Chiedo scusa ai miei lettori! Un insopprimibile bisogno di comunicazione mi ha preso la mano e mi ha condotto a vergare questo bozzetto démodé, ammuffito, ma pur sempre testimonianza d’un costume che ci teneva lontani da certe angosce esistenziali, da tante bramosie inappagabili, limitando i nostri desideri a cose semplici e pulite.



Vincenzo Vitale, Il pianoforte a Napoli nell’ottocento, Saggi Bibliopolis 10, Napoli: Bibliopolis 1983

Adriana Benignetti