sabato 16 novembre 2013

A colloquio con… Rachel Kolly d’Alba: donare (con) la musica

«Essere musicisti è meraviglioso: si ha l’opportunità di viaggiare, suonare in bellissime sale, visitare tante città e farsi conoscere dal grande pubblico. Credo che sia doveroso utilizzare questa “popolarità” per fare qualcosa di utile, per aiutare gli altri, per donare»


(© Tom Barnes for Warner Classics)
L’avevo già ascoltata dal vivo, tempo fa, e, più di recente, incontrandola per caso a Milano, avevo scambiato con lei qualche parola. Poche, a dire il vero, ma sufficienti a incuriosirmi e a provare il desiderio di saperne di più. Quel che mi aveva colpito, in particolare, era un sottile contrasto tra quello che si può immaginare, vedendola senza conoscerla, e quel che si percepisce osservandola più da vicino.


Altissima, fisico statuario, capelli rosso fuoco e un’immagine che ricorda quella di qualche attrice-diva degli anni passati, Rachel Kolly d’Alba nasconde, in realtà, una semplicità impressionante, come impressionante e contagiosa è la sua sensibilità. Lo avevo percepito immediatamente, in quei pochi minuti, ma ne ho la conferma piena quando la incontro per l’intervista.

L’appuntamento è davanti al Teatro Dal Verme, poche ore prima di un concerto che la vedrà protagonista con l’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano, diretta da Daniel Kawka. Quando arriva, con a seguito la carinissima figlia di 7 anni, mi sento stranamente a mio agio, come poche volte mi è capitato prima: senza un filo di trucco e con i capelli raccolti in due graziose treccine, sembra ancora più giovane dei suoi 32 anni. 


(©A. Matropalo)
Anni vissuti intensamente, da un lato si potrebbe dire velocemente, ma allo stesso tempo con estrema calma. «Ho l’impressione che nella mia vita, in particolare in quella professionale, tutte le cose siano arrivate al momento giusto, quando ero pronta: nulla è mai accaduto troppo presto» mi confessa. Eppure, a leggere la sua biografia, si resta alquanto esterrefatti: la scoperta del violino a 1 anno, l’inizio dello studio a 5 anni, il debutto con orchestra a 12. «Tutto è avvenuto in maniera estremamente naturale. Nella mia famiglia non c’erano musicisti: mio padre, giornalista, specialista del Vaticano, era il direttore della tv e della radio cattoliche in Svizzera. Tutte le domeniche, in radio, c’era l’Orchestre de Chambre de Lausanne che suonava e, insieme a mia madre e alle mie sorelle, andavamo a sentire i concerti. Ho amato immediatamente il violino, il suo suono che riconoscevo anche in orchestra, e la sua forma: se ci pensi è l’unico strumento che si tiene vicino al cuore. Desideravo averlo, avere il mio “peluche” da coccolare e quando, pochi anni dopo, è arrivato il primo violino è stata una gioia immensa».

A 10 anni arrivano anche le prime vittorie importanti nei principali concorsi musicali della Svizzera e a 15 Rachel ottiene il diploma di virtuosità e di insegnamento per il violino e la musica da camera. «Non ho mai avuto alcuna pressione né spinta da parte dei miei genitori, né degli insegnanti. Ho sempre provato estremo piacere nel suonare e quando sono diventata adolescente, ho capito con chiarezza che la musica sarebbe stata la mia strada e il violino il mio compagno di cammino». E a queste parole la figlia Amarena, mi confessa che “spesso la mamma addirittura dorme con il violino”. 


Dopo il diploma, Rachel continua gli studi in orchestrazione, composizione e analisi, mentre la sua carriera va avanti, nella musica da camera come nel solismo. «In musica, per me, non esistono divisioni: amo la musica a 360 gradi. Sicuramente, però, la musica da camera è stata fondamentale nella mia crescita, musicale e non solo: c’è un contatto talmente diretto con gli altri musicisti, da diventare un luogo privilegiato della vera “condivisione”». 

Tra le tante collaborazioni, ad esempio, ricorda con estremo piacere quella con il pianista Christian Chamorel.  «La collaborazione con lui è iniziata quando avevo 12 anni e oltre a essere un eccellente musicista è per me anche un amico. Suonare con lui è un doppio piacere perché passiamo moltissimo tempo anche a parlare, a ridere come due ragazzini». 

Un piacere che Rachel riscopre ogni volta che si trova a condividere davvero la musica: «Non amo i direttori d’orchestra che vogliono imporre le loro idee, senza confronto. La musica è dialogo, innanzi tutto, e la vera gioia è quando si può discutere, fare musica insieme nel senso più profondo del termine». Come è accaduto, ad esempio, con l’Orchestra Haydn e Kawka, con i quali suonerà questo pomeriggio, o con John Axelrod, oggi suo compagno di vita.

A farli incontrare, scopro, è stata proprio la Serenade per violino, archi, arpa e percussioni di Leonard Bernstein, che Rachel suonerà tra poco e che ha eseguito la prima volta 3 anni fa con l’Orchestre National des Pays de la Loire guidata proprio dal direttore texano. «Ho conosciuto John Axelrod grazie a questo brano, 5 anni fa: all’epoca lui era direttore principale della Luzerner Sinfonie Orchester e direttore musicale del Teatro di Lucerna e gli avevo confessato che mi sarebbe piaciuto suonarla. La Serenade viene eseguita molto di rado, nonostante sia molto bella: affrontarla con lui, che di Bernstein è stato allievo diretto, è stato magnifico. Ho avuto l’opportunità di vedere la sua partitura dov’erano conservate tutte le annotazioni originali di Bernstein, le parole, le idee, il modo di intendere i respiri… ogni dettaglio». 



Una composizione estremamente difficile e alquanto distante, probabilmente, da quello che il pubblico si aspetta pensando a Bernstein. «È un cliché, tipicamente europeo, quello di considerare la musica americana “troppo popolare”. La Serenade, ad esempio, è musica estremamente complessa, piena di sfumature, difficile tecnicamente ma allo stesso tempo profonda e appassionata».



E l’anno scorso, insieme ad Axelrod, Rachel ha inciso per la prestigiosa etichetta Warner Classics un CD, American Serenade,  interamente dedicato alla musica americana (disco che ha già ricevuto il premio “Supersonic” della rivista Pizzicato, 5 stelle da Diapason e la nomina agli ICMA 2013): le chiedo quali sono i motivi alla base delle sue scelte di repertorio. «Il fatto che, come dicevo all’inizio, tutto è arrivato al momento giusto, mi rende estremamente serena perché ho avuto e ho l’opportunità di scegliere. Non ho mai pensato di suonare qualcosa perché poteva fare più presa sul pubblico o perché, nel caso di un CD, potesse vendere più copie. Ho sempre suonato il repertorio che amo di più e che conosco più approfonditamente. Per esempio, prima di incidere Ysaÿe ho conosciuto la famiglia, i nipoti, ho analizzato i manoscritti e letto tutte le biografie esistenti. Solamente allora ho pensato di essere pronta». 



Un amore antico quello per la musica francese alla quale Rachel ha dedicato French Impression nel 2011 – disco che ha vinto il “Supersonic Award” 2011 della rivista Pizzicato ed è stato premiato come “Best Recording of the Year in the Concerto category” agli ICMA 2012 –, dopo aver inciso, l’anno precedente, Passion Ysaÿe: tutti dischi registrati per la Warner Classics. «Ho scoperto la musica francese quando avevo 13-14 anni e l’ho amata immediatamente e subito suonata. Non sempre ciò che si ama di più e ciò che si suona meglio coincidono: in questo caso sì. È un mondo che adoro perché ricco di colori, sfumature, e nel quale mi sento perfettamente a mio agio, come una seconda pelle: è molto affine al mio modo di essere». E, mi spiega di trovare una certa continuità tra questo mondo e quello di certa musica americana, un altro suo grande amore appunto, insieme alla musica contemporanea. 

La vita di Rachel non è fatta solo di musica, però: innanzi tutto, il suo ruolo di madre le richiede energie e tempo, spesi con estremo entusiasmo, visto che è davvero una mamma tenerissima e molto presente. Non facile, per chi, come lei è sempre pronta a fare una valigia. «Credo che per qualsiasi mamma che lavora sia dura: io cerco di fare del mio meglio e, soprattutto, quando sono con lei di dedicarle tutta me stessa. Penso che la qualità del tempo trascorso insieme sia fondamentale».

Appassionata di scrittura, la Kolly d’Alba si diletta anche a comporre romanzi e favole: «Quando ero adolescente ho provato a comporre musica, nel periodo in cui studiavo composizione: poi, ho lasciato stare perché è un mondo davvero complesso. Credo di esprimermi meglio nella scrittura».


(©Nicolas Axelrod per HI Suisse)
Un’altra grande passione ha, però, negli ultimi due anni preso un grandissimo posto nella vita di Rachel: quella che le è valsa la nomina ad ambasciatrice per Handicap International, associazione nata 30 anni fa. L’avvicinamento a Handicap International è stato naturale per la d’Alba che, per esperienze familiari, ha sviluppato da sempre una sensibilità particolare per questo tema. «Le mie due sorelle sono medici, mia nonna era handicappata e anche mia madre ha perso, in seguito a un incidente, un piede. Questo, probabilmente, ha smosso la mia sensibilità oltre al desiderio di trovare un equilibrio tra il mondo spirituale, nel quale sono immersa con la musica, e quello reale. Per chi, come me, suona, capita di passare anche 7-8 ore da soli con il proprio strumento: è importante ricordarsi anche dei meno fortunati».


(©Nicolas Axelrod per HI Suisse)
E così, nel febbraio di quest’anno, Rachel ha fatto la sua prima missione in Cambogia e quando ne parla si emoziona ancora. «È stata un’esperienza straordinaria: per due settimane e mezzo ho visitato tutti i luoghi nei quali Handicap International si occupa delle persone, di quelli che sono stati colpiti dalle mine antiuomo, in primis, ma anche di bambini o donne in difficoltà. In Cambogia moltissimi non avevano nemmeno mai sentito il violino e la risposta è stata incredibile: soprattutto quella dei bambini. Era fantastico vedere la loro reazione di fronte al pizzicato o al vibrato: ridevano ed erano felici. Mi hanno raccontato la loro vita e io a loro la mia, e ci sono stati tanti momenti di scambio: dei momenti magici. La musica è qualcosa che tocca tutti».

Vengo a scoprire che a breve Rachel terrà un concerto in Svizzera, il cui ricavato andrà totalmente a Handicap International: «La Svizzera è un Paese ricco, che dispone di tutte le infrastrutture per le persone con handicap: spesso, però, quando in passato parlavo della necessità di aiutare persone all’estero per questo problema, rimanevano basiti. Le vedevano come realtà lontane e pensavano fosse sufficiente quello che veniva fatto in patria. Diventare ambasciatrice di Handicap International mi ha permesso di trasmettere il messaggio con grande forza e visibilità e le persone hanno iniziato a riflettere».

E, prima di salutarci, mi dice: «Essere musicisti è meraviglioso: si ha l’opportunità di viaggiare, suonare in bellissime sale, visitare tante città e farsi conoscere dal grande pubblico. Credo sia doveroso utilizzare questa “popolarità” per fare qualcosa di utile, per aiutare gli altri, per donare».


Adriana Benignetti