mercoledì 22 novembre 2017

"La scopa di Bruckner": Paolo Isotta

Un interessante saggio di Paolo Isotta del 1977 sulla "Sinfonia n. 1" di Bruckner 


Joseph Anton Bruckner 
(Ansfelden, 1824 – Vienna, 1896)

La scopa di Bruckner

Nella storia della musica, la precocità degli artisti sembra la norma, piuttosto che l'eccezione. Il destino dei più grandi musicisti si è, di solito, deciso tra i dieci e i quindici anni. Anton Bruckner, che in nessuno degli atti della sua creazione e persino della sua biografia corrisponde alla norma, rimane figura che spazi siderali separano dal presente, dal passato e dall'avvenire. Anton Bruckner aveva quarantadue anni, quando vide nascere la sua Prima Sinfonia.

I quarantadue anni, Purcell, Pergolesi, Mozart, Weber, Schubert, Bellini, Chopin, non li avevano ancora raggiunti: a quarantadue anni, Beethoven aveva già scritto le prime otto Sinfonia, i primi dodici Quartetti, la Leonora, i cinque Concerti per pianoforte, il Concerto per violino, il Trio Arciduca, le prime ventiquattro Sonate per pianoforte; Berlioz, già insignito della Legion d'Onore, il Benvenuto Cellini, la sinfonia Fantastica, il LélioAroldo in Italia, Romeo e Giulietta, le Nuits d'été, il Requiem e La dannazione di Faust; Brahms, gran parte della musica da camera, i monumentali cicli di Variazioni, il primo Concerto per pianoforte, i Liebesliederwalzer, il Rinaldo, il Requiem tedesco  e il Canto del destino; e Wagner, che pure era maturato alla musica relativamente tardi, aveva già composto RienziL'Olandese volante, TannhäuserLohengrin, quasi terminato il Tristano, e interamente concepito, abbozzato, preparato o scritto il resto della sua produzione. Il contrasto è tanto più impressionante se si pensa che la Sinfonia, con la musica sacra, è praticamente il solo genere di musica trattato da Bruckner. Dietro le spalle della Prima Sinfonia Bruckner non ha dunque che due grandi Salmi, la prima grande Messa, e tre Sinfonie sperimentali, la terza delle quali (elencata dall'autore come Die Nullte, «il numero zero») potrebbe, in alcune sue parti, essere ascritta al regno della grande musica. Questo contadino paziente e silenzioso era maturato con la lentezza del seme di grano sotto la neve. Quasi completamente isolato dal circuito della vita musicale (se queste circostanze puramente meccaniche hanno una qualche importanza sulla formazione d’un genio), issato sul suo scanno di organista fra l’abbazia di Sankt Florian e la provinciale Linz, egli covava dentro di sé energie di portata cosmica che attendevano la prima occasione per esplodere con una violenza inimmaginabile. 

Oggi, non ci sembra tanto straordinario che un quarantaduenne organista di Linz componesse nel 1866 la sua Prima Sinfonia. Invece, occorreva essere o un completo imbecille o un completo genio per fare una cosa simile. Volgiamoci indietro: il secolo, a tanti decenni dalla morte di Beethoven, viveva sotto lo shock delle sue Sinfonie. Dopo Beethoven, non si debbono più scrivere Sinfonia, aveva detto Wagner: e infatti, solo Mendelssohn e Schumann avevano osato rifarsi al modello, il primo cercando disperatamente di tenere insieme un edificio esploso per la sua stessa potenza con il rappezzarlo, con lo stilizzarlo in forme di classica concisione che «normalizzassero» il suo sconvolgente contenuto, il secondo torturandosi e soffrendo in ogni istante d’un terribile «complesso di Lajo» verso Beethoven. Nel 1866 Brahms, che aveva già tanto composto, accarezzava solo nei suoi sogni il proposito di scrivere una Sinfonia. In realtà, Bruckner vedeva dunque tra sé e Beethoven l’immenso spazio di quarant’anni di vuoto sinfonico, colmato solo in parte, oltre che da Mendelssohn e Schumann da un lato, da Berlioz e Liszt dall’altro, che per sottrarsi all’impossibile confronto avevano imboccato strade sinfoniche del tutto diverse. E questo vuoto doveva tentare di riempirlo proprio lui, giudicato da tutti un fallito che a quarantadue anni non era riuscito a evadere dalla sua cerchia provinciale, lui che non aveva alle spalle successi di alcun genere e che «non aveva viaggiato»? (Il viaggiatore è giudicato indispensabile per essere grandi artisti: pregiudizio da attribuirsi alla mala fede dell’intellettuale cosmopolita, secondo l’espressione di Spengler. «La natura non va all’estero», rispose Robert Walser quando gli rimproverarono di non aver mai viaggiato.)




Ebbene, solo l’immensa ingenuità dell’utopista ignaro delle misure umane spiega questo improvviso esplodere d’un’energia creativa che annulla dubbi e pudori storici, che osa l’inosabile. Solo un’enorme violenza espressiva repressa spiega come un uomo timido di fronte all’ultimo sacrestano si buttasse a capofitto, quasi contro Beethoven, nella creazione d’un’opera che verso il modella non presenta la minima timidezza. Das kecke Beserl la chiamò, anni dopo, il maestro, che soleva, con gusto autoironico o masochistico, donare nomignoli ai suoi monumenti: «la scopa sfacciata». Ché da scopa priva di scrupoli la Sinfonia in do minore spazza via ogni ostacolo. Ancor oggi, il coraggio di questo quarantaduenne sconvolge. 

La Prima Sinfonia unisce alla riflessione metafisica che annuncia il Bruckner delle cattedrali sinfoniche a venire, una muscolosa snellezza, un impeto giovanile, una concisione che l’autore stesso non ritroverà. E li unisce al senso dei grandi spazi, degli sfondi interminati che Bruckner contemplerà sempre più, in cui la sua fantasia pare così addentrarsi da abbandonarci. Essi si aprono nel secondo movimento: e tormentosamente, attraverso un cercare, come brancolando nel buio, la tonalità, il che deriva di sciuro dall’ultimo Beethoven ma approda a un perpetuo, inquieto modulare ormai già traduzione della wagneriana «melodia infinita» e stretto parente del second’atto del Tristano. Sono spirali cromatiche che s’allargano, è lo sfumare d’un accordo in un altro secondo i continui caleidoscopii della transizione armonica. Donde li traeva, questo provinciale quarantaduenne? 


V’è la grottesca danse macabre espressionista dello Scherzo: forse Bruckner non scriverà mai più uno Scherzo simile. Dove lo aveva conosciuto il diavolo, questo bigotto? V’è la solida e concentrata costruzione del primo tempo, con le sue scariche di violenza improvvisa e le sue distensioni organistiche, v’è quella vera aggressione del Finale, con progressioni che quasi esercitano violenza fisica sull’ascoltatore togliendogli il respiro, con la sua angoscia cromatica, con la scrittura accordale sfolgorante o esplosiva degli ottoni che si trasforma poco a poco nell’epifania solenne del tema trasformato in corale. Tutto questo, anche tenuto conto con diligenza delle sicure, probabili e possibili fonti di Bruckner (Wagner compreso), non potrà comunque spiegarsi. 


Già nella Prima, come nelle altre Sinfonie di Bruckner, v’è una parte di mistero che non verrà penetrata. Un mistero che coinvolge la stessa forma abbandonata da Beethoven alla sua morte quasi con l’attitudine di Alessandro che lasciava l’anello imperiale: «al più degno».
 (1977)

(testo tratto da: Paolo Isotta, I sentieri della musica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1978, pp. 285-288)

Adriana Benignetti