martedì 14 febbraio 2017

"Maria di Rohan" di Gaetano Donizetti


Gaetano Donizetti 
(Foto: ecodibergamo.it)

Maria di Rohan
Melodramma tragico in tre atti

Musica
Gaetano Maria Donizetti (Bergamo, 29 novembre 1797 – Ivi, 8 aprile 1848)

Libretto
Salvatore Cammarano (Napoli, 19 marzo 1891 – Napoli, 17 luglio 1852)

Prima rappresentazione
Vienna, Teatro di Porta Carinzia, 5 giugno 1843

Personaggi

Maria, contessa di Rohan (soprano)
Riccardo, conte di Chalais (tenore)
Aubry, suo segretario (tenore)
Enrico, duca di Chevreuse (baritono)
Armando di Gondì (tenore)
Il visconte di Suze (basso)
De Fiesque (basso)
Un familiare di Chevreuse (basso)

Cavalieri, dame, arcieri, paggi, guardie e domestici di Chevreuse

Ambientazione: Parigi, durante il regno di Luigi XIII

Argomento

Atto I
Maria di Rohan, famosa cortigiana, teme per la vita di suo marito, il duca di Chevreuse, condannato a morte dal cardinale Richielieu per essersi battuto in un duello; la donna prega il suo amante, il conte di Chalais, di intercedere presso il re affinché conceda la grazia al duca, missione nella quale riesce, senza sapere che in realtà è il marito di Maria. Chalais sfida a duello Armando di Gondì che aveva messo in dubbio la fedeltà della cortigiana, ma scopre anche che la donna è sposata.

Mariana Nicolesco, soprano, "Cupa, fatal mestizia", Atto I,
(Video caricato da in data 03/apr/2010)


Atto II
Nel suo palazzo, Chalais attende l’ora del duello e consegna al suo segretario Aubry una lettera d’addio per Maria, da darle in caso di morte. La donna, che nel frattempo si è resa conto di amare ancora il conte, lo prega di non battersi per sfuggire alla vendetta di Richelieu, ma deve nascondersi per l’arrivo del marito che, in segno di riconoscenza, si è offerto di accompagnare l’uomo al duello. Dopo la partenza del duca, Maria implora ancora il suo amante. Il conte esita e nel frattempo, Chevreuse si batte al suo posto con Gondì.

Atto III

Dopo il duello, Chevreuse ritorna con una piccola ferita; nel frattempo, Richelieu, tornato al potere e deciso a vendicarsi, ordina di perquisire la casa di Chalais e fa recapitare al duca il biglietto che il conte aveva inviato a Maria. Preso dalla gelosia il duca affronta la donna che gli confessa il tradimento: i due uomini si affrontano a duello e da lontano si odono due colpi di pistola. Chevreuse rientra spiegando che il conte si è suicidato per non cadere nelle mani di Richelieu e leva il dito accusatore sulla disperata donna.

Renata Scotto, soprano, "Havvi un Dio che in sua clemenza", Atto III (VIdeo caricato da in data 20/ago/2009)


Hanno detto su Maria di Rohan

[…] Con Maria di Rohan, scritta per una Vienna esigente e raffinata, il pubblico è chiamato non già a condividere topòi letterari, come nel caso precedente, bensì addirittura a conoscere piuttosto approfonditamente un periodo specifico e molto complesso della storia francese. L’azione si svolge infatti negli anni Venti del Seicento, mentre regna Luigi XIII, in una Parigi dominata da una serie infinita di congiure, sospetti, intrighi, omicidi. Un’epoca in cui è davvero difficile districarsi fra lotte di potere, dissidi religiosi, scontri fra classi sociali (ma non preoccupatevi, la Rivoluzione francese è ancora lontana). Per rendersi conto del clima di quegli anni, basti sapere che il duello era vietato per legge, poiché era diventato il metodo più comune per risolvere le continue dispute fra nobili, e i trasgressori venivano puniti con la condanna a morte (quelli rimasti in vita, ovviamente). […] Purtroppo, però, trascurare la giusta collocazione temporale della vicenda restituisce una visione parziale, se non addirittura falsata, di un libretto e della conseguente drammaturgia musicale che traggono dalla cornice storica una profondità e un’energia – vorrei  dire una modernità – davvero straordinarie. Il fatto è che Cammarano, che si ispira a un dramma di pochi anni prima, non ci aiuta affatto in questo nostro arduo compito. E lo fa, non so quanto consapevolmente, lasciando senza parole e addirittura senza una presenza fisica in palcoscenico, il vero protagonista assoluto di quest’opera: Armand Jean du Plessis, meglio noto come il cardinale Richelieu. Sì, proprio quello de I tre moschettieri. La sua figura aleggia incombente per tutti e tre gli atti, essendo il primo ministro di un regno il cui re è universalmente riconosciuto come un giovane inetto. Eppure il nome di Richelieu viene proferito solo un paio di volte, la prima addirittura non prima della scena settima, e in entrambi i casi è Maria a farlo, quasi che gli altri non osassero nemmeno nominare il temutissimo religioso. Il triangolo amoroso fra Maria, Chevreuse (il marito segreto) e Chalais (l’ex amante rientrato in gioco) esce dalla cronachetta melodrammatica rosa e acquisisce i cupi toni della tragedia solo se, alle spalle, il pubblico può intuire la presenza di un Richelieu che diventa il burattinaio (nella definizione di Luca Zoppelli) che tira i fili di infelici burattini prigionieri del loro incombente destino. Lo spettatore che viene a teatro non solo per sentire se la signora, stasera, emetterà quel sopracuto perfettamente intonato, può vedere la vicenda sotto una luce tutta nuova solamente se sa che, a quell’epoca, la lotta politica e religiosa tra le grandi famiglie nobili era esasperata e che i complotti erano all’ordine del giorno: Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV di Navarra, diventa reggente al posto del figlio ancora bambino (Luigi XIII, appunto) dopo l’assassinio del marito. Siccome da che mondo e mondo i parenti sono serpenti, è il figlioletto Luigi che, nel 1617, la esautora del trono e la manda in esilio. Riammessa dopo cinque anni nel Consiglio di Stato, sostiene la nomina di Richelieu a primo ministro, credendolo suo alleato. Ma Richelieu ha ben altre mire, soprattutto in politica estera, e la bella fiorentina cercherà di ostacolare in tutti i modi il cardinale, complottando a più riprese contro di lui e il figlio Luigi e finendo per essere arrestata. In questo clima riottoso (che peraltro appare addirittura dilettantesco rispetto a una sola giornata dell’attuale scena politica italiana) si muovono i protagonisti della nostra opera, tutti realmente esistiti. Maria de Rohan-Montbazon era una sorta di pasionaria, indomita tessitrice di trame e cospirazioni di corte, per lo più indirizzate contro Richelieu e Luigi XIII. Pare che fosse proprio lei l’ispiratrice dell’intrigo ordito da uno dei suoi amanti, Henri de Tayllerand-Périgord, conte di Chalais, mirato a rimpiazzare l’insipido re con l’ancor più insipido fratello, Gastone d’Orléans. La cosiddetta Cospirazione di Chalais, avvenuta nel 1626, costò al conte la testa, mentre la Rohan, sopravvissuta, continuò allegramente a tramare contro la Francia, prendendosela poi, alla morte di Richelieu, anche con Mazarino. Tra amanti più o meno altolocati e disseminati in mezza Europa (potremmo considerarla una precorritrice dell’Unione Europea…), il marito Claudio di Lorena, duca di Chevreuse non ci fa proprio una bella figura. Peraltro la vita avventurosa di Maria non passò inosservata a studiosi e letterati, e Dumas padre la inserì sia nei Tre moschettieri che in Vent’anni dopo, e le attribuì un figlio segreto ne Il visconte di Bragelonne. Cammarano lavora molto di fantasia rispetto all’effettivo succedersi degli avvenimenti. Cambia innanzitutto i nomi (Chalais è chiamato Riccardo e Chevreuse diventa Enrico) e si prende molte libertà storiche. A cominciare dal colpo di scena che chiude il primo atto, quando il re nomina Chalais primo ministro in sostituzione del deposto Richelieu - il quale Richelieu approfitta poi del secondo intervallo per riprendersi il posto e ordinare l’arresto del conte. Se è possibile adombrare in questo episodio la famosa Cospirazione di Chalais, è certo che i dettagli sono del tutto inventati. In più il librettista sembra offrire all’onore ferito di Chevreuse una piccola rivincita letteraria, concedendogli di sostituirsi alla giustizia regale e di uccidere il rivale con una bella pistolettata (ma il delitto passionale avviene fuori scena e sarà presentato come un suicidio). Cammarano regala al cornuto marito un personaggio a tutto tondo che Donizetti poi si incarica di trasformare in un gigante, giustamente diventato cavallo di battaglia di interpreti dalla forte personalità scenica. Assodata l’infedeltà storica del libretto, è certo che il profilo della Rohan acquisisce un grande spessore se si pensa alla sua movimentata vita reale: non già una vittima indifesa, come sembra suggerire una lettura affrettata della trama; non già un’innocente salvata da Chevreuse dalle mire del cardinale che voleva farle sposare un suo nipote; bensì una vera manipolatrice che non esita a coinvolgere il povero Chalais, perdutamente innamorato di lei, ad intercedere presso il re per salvare il marito dai suoi guai giudiziari. E qui entra in gioco Donizetti che, nella sua penultima opera, si dimostra autore di teatro ben più grande di quanto certa critica spocchiosa abbia mai voluto ammettere (e che forse avrebbe anche ammesso se solo il nostro Gaetano non avesse concesso troppo ai capricci dei cantanti). C’è infatti un altro protagonista occulto, in quest’opera, ed è il tempo. Anzi, il Tempo. Implacabile, inesorabile, sempre presente attraverso rintocchi di campane e tintinnii di orologi. Il dramma domestico di un uomo che scopre che la moglie se la fa con l’amico per il quale ha rischiato la vita (non vi ricorda Un ballo in maschera?), questo dramma quasi piccolo borghese, diventa tragedia classica nel momento in cui il Tempo che scorre si allea con un Potere inafferrabile e trama perché ogni tentativo dei nostri tre di sfuggire al proprio destino sia vano. È una storia di poveri esseri umani privati del loro libero arbitrio, convinti di poter modificare il corso della storia ma che cadono sotto i colpi dei veri protagonisti - il Tempo, il Potere - troppo ingombranti persino per essere mostrati, persino per essere nominati. L’ingresso in scena dei personaggi è sempre preannunciato da un’introduzione rapida, ansiogena, che fa pensare a una molla che li scaraventa in scena. Te li immagini agitarsi dietro le quinte, sempre col fiato corto nel timore di arrivare in ritardo. Salvo poi arrivarci davvero, in ritardo. Chalais si attarda troppo con Maria nel secondo atto, e Chevreuse è costretto a battersi in duello al posto suo. E Maria rimane nel terzo atto con Chevreuse per più dell’ora stabilita da Chalais che, tornato a prenderla, firma la sua condanna a morte. Ma Donizetti usa il Tempo anche nello scardinamento delle forme musicali tradizionali. La cavatina di Chalais del primo atto è niente più che un breve arioso senza cabaletta, scelta modernissima che scaraventa lo spettatore direttamente in media res. Oppure scontenta l’interprete e toglie a Maria lo sfogo finale di un’aria di coloratura, chiudendo l’opera con una lapidaria frase di Chevreuse («La morte a lui, la vita con l’infamia a te, donna infedel!»). E se non mancano i momenti di alleggerimento, con l’episodio di Maria chiusa nell’armadio che è degno di Feydeau, il tono complessivo è cupo. L’opera, dopo una sinfonia di dimensioni e peso inusitati, si apre con una scena di nove pagine, in cui il Coro commenta i preparativi per i festeggiamenti che, dopo molti anni di buia oppressione, avranno luogo al Louvre, quasi a presagire il declino di Richelieu («Questa Reggia che prìa nel silenzio più tetro languìa…»). Orbene, questa pagina è ammantata da un clima misterioso e sospeso, costellato da dinamiche che vanno dal piano al pianissimo. Solo in due occasioni una forcella conduce al forte, ma dopo una battuta si torna al piano, quasi che le persone in scena temano che le loro parole possano essere udite da qualcuno («Ma rimuover non giova tai veli. Quanto ardita opra saggia non è»). E anche i momenti più lirici rimangono sempre crepati dall’oppressivo senso dell’ineluttabilità del destino («Ah no, non dirmelo, lasciami piangere (…) segnato è il termine, deggio morir» dice Chalais, che altrove aveva affermato «Lottar col fato è vano. Ei mi tragge, io lo seguo»). Questo turbine che trascina i protagonisti verso il fondo del gorgo è suggerito inconsciamente agli spettatori anche dalla durata dei tre atti che diminuisce progressivamente. In particolar modo la versione di Vienna che abbiamo adottato si rivela essere un modello di asciuttezza e di coerenza drammaturgica, prima che il gusto mondano della scena parigina imponesse all’autore appesantimenti abbastanza inutili, come l’ampliamento del ruolo di Gondì e la sua trasformazione da tenore a contralto en travesti. Un’asciuttezza e una modernità che rendono abbastanza inspiegabile il relativo oblìo che quest’opera conosce tuttora. […]
(Roberto Recchia, Note di regia. Anime in pena in corso contro il tempo, dal sito donizetti.org)


Adriana Benignetti