martedì 6 settembre 2016

“L’incoronazione di Poppea”: la trama

L’incoronazione di Poppea
Dramma per musica in un prologo e tre atti

Musica
Claudio Monteverdi (Cremona, 15 maggio 1567 – Venezia, 29 novembre 1643)

Libretto
Gian Francesco Busenello (Venezia, 24 settembre 1598 – Legnaro, 27 ottobre 1659)

Prima rappresentazione
Venezia, Teatro SS. Giovanni e Paolo, Carnevale 1643

Personaggi
La Fortuna, soprano
La Virtù, soprano
L’Amore, soprano
Ottavia, soprano
Drusilla, soprano
Seneca, basso
Arnalta, contralto
La nutrice, contralto
Lucano, tenore
Un valletto, soprano
Una damigella, soprano
Un liberto, tenore
Due soldati, tenori
Un littore, basso
Pallade, soprano
Mercurio, basso
Venere, soprano

Familiari di Seneca, consoli, tribuni, amori

La trama (testo tratto da Dizionario dell’opera 2002, a cura di Piero Gelli, Baldini&Castoldi, Milano 2001, pp. 627-631)

Prologo
Amore dichiara la propria sovranità sulla Fortuna e sulla Virtù nell’influenzare le sorti dell’uomo: lo spettacolo che seguirà sarà la dimostrazione di questa tesi. 

Atto primo

È l’alba: Ottone si aggira sotto i balconi dell’abitazione di Poppea nella speranza di incontrarla, cantando con struggimento una dolce aubade strofica (“Apri un balcon, Poppea”), ma scorge due soldati di Nerone addormentati e fugge sconvolto per l’infedeltà dell’amante. Svegliatisi di soprassalto, i soldati maledicono “Amor, Poppea, Nerone,/ e Roma, e la Milizia” scambiandosi commenti sulla situazione precaria dell’impero e sulle vicende private di corte. Tacciono all’apparire di Poppea, che tenta di trattenere l’imperatore presso di lei (“Signor, deh non partire”). È la prima delle tre scene che vedono protagonisti i due amanti da soli.  La parte di Poppea, qui come negli altri episodi di seduzione, si muove per intervalli morbidamente congiunti, sottolineando spesso gli accenti delle parole con intervalli di seconda diminuita, traducendo con dissonanze l’amarezza della partenza di Nerone e il suo (finto?) venir meno.  Il compositore è abilissimo a frammentare il testo fra i due interlocutori, nel momento in cui Nerone si lascia strappare la promessa del ripudio di Ottavia: la disposizione testuale chiarifica che la promessa viene proprio estratta dalla bocca di Nerone da Poppea, che lo ha quasi ipnotizzato. Poppea, rimasta sola, non nasconde a se stessa la speranza di diventare imperatrice, ma la nutrice Arnalta, in una scena arricchita di sinfonie strumentali, la mette in guardia poiché «la pratica coi Regi è perigliosa». Il primo monologo dell’imperatrice Ottavia, “Disprezzata Regina” (I,5), segue l’impostazione tradizionale della scena di lamento: desolazione, cinica descrizione della sorte femminile, maledizioni contro l’uomo traditore, accuse concitate nei confronti delle divinità, sùbiti pentimenti e ricaduta nella depressione. A nulla vale la morale spicciola offerta dalla nutrice di Ottavia, in sequenze cantabili e in tempo ternario. Nessun giovamento trae Ottavia dal conforto filosofico propostole da Seneca con una declamazione ben più aulica e fiorita. Stizzito, un valletto si fa beffe del filosofo (“Queste del suo cervel mere invenzioni/ le vende per misteri, e son canzoni”), imitando sbadigli e starnuti. Seneca medita sull’infelicità nascosta sotto le «porpore regali» e viene visitato da Pallade, che gli annuncia la prossima fine, al che egli gioisce. Nerone comunica a Seneca la decisione di ripudiare Ottavia (I,9): ne nasce uno scontro sempre più serrato, durante il quale Nerone perde spesso la pazienza di fronte alle ferme risposte del maestro, che lo accusa di «irragionevole comando». In quella che è una delle scene più drammatiche dell’opera, importante anche per la sua posizione centrale e per il contenuto (la sconfitta morale di quello che, al termine dell’opera, sarà il vincitore Nerone, qui svelato nella sua immaturità politica ed esistenziale), la fiducia di sé che Seneca esprime si oppone alla crescente agitazione dell’imperatore, resa dagli scarti stilistici dei suoi interventi rispetto a quelli del filosofo, composti e nello stesso tempo veementi. Ripetizioni di parole, cambiamenti improvvisi di metro, impennate melodiche all’acuto, impiego del caratteristico ‘stile concitato’ (note ribattute velocemente) dipingono la furia crescente di Nerone; invece Seneca raramente ricorre a ripetizioni di parole e spesso chiude le frasi con cadenze perfette e retoricamente disegnate (quasi uno stilema ricorrente per il personaggio). Nerone è poi raggiunto da Poppea, la quale rinfresca all’imperatore il ricordo della notte passata e, dopo averlo portato al massimo dell’eccitazione, gli fa ordinare immediatamente la morte di Seneca. 

Poppea si scontra con Ottone, che le rimprovera la sua infedeltà e viene poi compatito da Arnalta: «Infelice garzone... quand’ero in altra età / non volevo gli amanti / in lagrime distrutti, / per compassion li contentavo tutti». Ottone è raggiunto dall’innamorata Drusilla, alla quale promette di dedicarsi, anche se commenta ironicamente fra sé: «Drusilla ho in bocca, et ho Poppea nel core».

Atto secondo

La prima parte dell’atto è tutta dedicata a Seneca, che dopo un breve monologo riceve il secondo annuncio della sua prossima morte, questa volta da Mercurio, che gli infonde serenità prima di volare via sull’onda del suo virtuosismo vocale. 

Un liberto comunica al filosofo l’ordine di Nerone: Seneca avvisa serenamente i famigliari, che prorompono in un’invocazione a tre voci (“Non morir Seneca, no”). Nella prima sequenza del brano, le voci entrano in imitazione su un soggetto e un basso cromatici, con un effetto di crescendo drammatico che sembra sincero. Nella seconda, ogni voce replica diatonicamente, su note ribattute, «io per me morir non vo’». Dopo un allegro ritornello, la terza sezione ne segue il ritmo di danza: ritornello e sezione ‘danzante’ sono ripetuti (le parole cambiano), dopo di che si torna indietro, con la seconda sezione e poi la prima, quella cromatica ed espressiva. Lo scanzonato ritornello chiude l’episodio. La scena successiva, come intermezzo di contrasto, presenta le schermaglie amorose del valletto e della damigella, una ventata di freschezza e distensione nell’atmosfera cupa della corte, un po’ come avveniva per gli interventi di Melanto ed Eurimaco nel Ritorno di Ulisse . «Hor che Seneca è morto,/ cantiam, cantiam, Lucano»: all’invito di Nerone segue una lunga scena di canti in onore di Poppea. Nel libretto era prevista la presenza di altri personaggi (Petronio, Tigellino), ma il compositore sceglie di affidare solamente a Lucano la replica al protagonista. Le due voci si annodano e rincorrono, per scindersi su un ipnotico ostinato del basso: solo Lucano è in grado di continuare il canto («Bocca, bocca, che se ragioni o ridi»), Nerone emette sillabe e frasi spossate («Ahi, destin»). Ottavia ordina a uno sbigottito Ottone di uccidere Poppea. Entra in scena Drusilla, che si conferma come soprano-soubrette vagamente svampita. Essa è l’unica che osa sciogliere una melodia spiegata (“Felice cor mio, / festeggiami in seno”) nel clima pieno di sospetto del palazzo reale, senza assolutamente capire cosa le stia accadendo intorno. Trascinati dall’ottimismo di Drusilla, anche la nutrice e il valletto danno vita a una scena distensiva e comica. Ottone rinnova le sue promesse di fedeltà alla ragazza, chiedendole però di prestarle i suoi vestiti per compiere l’assassinio di Poppea. Drusilla sventatamente acconsente, non senza precisare con slancio: «e le vesti e le vene io ti darò». 


Frattanto Poppea si affida ad Amore per coronare i suoi sogni e si addormenta nel giardino di casa. Arnalta le canta una dolcissima ninna-nanna in tre strofe (“Oblivion soave” II,12). L’attentato di Ottone, travestito da donna, è impedito da Amore, che era sceso in terra per vegliare la sua protetta e aveva cantato un’aria in quattro strofe (“O sciocchi, o frali / sensi mortali”).

Atto terzo
Drusilla, sola in scena, canta un altro dei suoi motivetti cantabili, ma viene sorpresa e imprigionata, in quanto presunta autrice dell’attentato. Ottone confessa di essere il colpevole, su isitigazione di Ottavia; Nerone capisce di avere finalmente il pretesto per ripudiare l’imperatrice e spedisce Ottone e Drusilla in esilio. Un’altra scena fra Poppea e Nerone contiene il duetto “Idolo del cor mio, giunta è pur l’ora”, ricco di slancio melodico soprattutto al verso «Stringimi tra le braccia innamorate». Seguono un monologo di Arnalta, felice per l’ascesa sociale di Poppea (e sua) e il lamento di Ottavia (“A Dio Roma, a Dio Patria, amici a Dio”). Incapace di pronunciare le parole, l’imperatrice ripudiata singhiozza su una nota (la ‘a’ di “A Dio Roma”), esprime il dolore per il trionfo delle «perverse genti», termina il suo asciutto monologo su un secco «A Dio». La scena dell’incoronazione vede Poppea acclamata da un coro di consoli e tribuni, e da un coro celeste, guidato da Venere in persona con Amore. Gli amanti intrecciano l’ultimo duetto, il seducente “Pur ti miro”, in cui le voci si annodano su un ostinato tetracordo discendente. Tale duetto probabilmente non era previsto nella prima rappresentazione veneziana, della quale rimane traccia solamente per la pubblicazione dello ‘scenario’. Il testo compare nel libretto di una ripresa bolognese (1641), e di altre successive, del Pastor regio di Benedetto Ferrari, ma anche nel Trionfo della fatica musicato da Filiberto Laurenzi (Roma 1647). Al termine della vicenda dell’ Incoronazione , però, esso assume un altro e più pregnante significato drammatico e strutturale, rispetto a quelle occorrenze: sigla il trionfo degli amanti, facendo convergere le premesse poste dal duetto di Fortuna e Virtù nel prologo, e da quello di Lucano e Nerone (I,6), entrambi costruiti su un basso ostinato formato da un tetracordo discendente. 
A.B.