lunedì 26 giugno 2017

"La realtà della musica nell'esecuzione" di Massimo Mila

La realtà della musica nell’esecuzione
(da L'esperienza musicale e l'estetica)



Accade spesso che in merito alla qualità e ai pregi di un’esecuzione musicale si manifesti una profonda divergenza d’impressioni tra l’intenditore e il profano, o meglio il semplice appassionato di musica, e che là dove quello non ha provato che fastidio e rammarico per una perfida manomissione dell’opera eseguita, quest’ultimo si entusiasmi e provi il brivido sacro d’una reale emozione estetica. 

Donde il suo sbigottito sconforto quando apprende d’essersi tanto commosso per una manifestazione da cui era ben lontana la presenza perfetta dell’arte, e il conseguente dubbio che s’insinua, nei più perspicaci e più portati a ragionare coerentemente le proprie impressioni, sulla realtà stessa dell’opera d’arte musicale. Che rimane, infatti, dell’esistenza concreta di una sinfonia di Beethoven, se la sua esecuzione può dar luogo a tanta disparità, anzi, antiteticità di opinioni, e quel che è peggio, di genuine e sincere impressioni?

Dubbio serio, che del resto si è presentato più volte alla mente di coloro che hanno ragionato sulla musica, favorito dalla particolare condizione sociale di quest’arte che, unica insieme al teatro, richiede l’intermediario di uno o più interpreti, fra l’opera d’arte e chi ne vuol godere. Sicché ci si comincia a domandare dove fisicamente sia l’opera d’arte musicale: certamente non consiste materialmente in quei segni neri affidati al pentagramma. Dunque la musica esiste, fisicamente, soltanto nell’esecuzione: non la carta stampata, ma il suono ne è il luogo fisico, e dalla carta stampata al suono non si passa generalmente senza mediazione dell’interprete, dell’esecutore. Ora, se avviene che la stessa esecuzione che a un ascoltatore permette di godere dell’opera d’arte con piena soddisfazione, a un altro pare invece perfida e siluratrice, e si pone come un diaframma, come un ostacolo tra l’ascoltatore e l’opera d’arte eseguita, dove va a finire la realtà intrinseca di quest’opera d’arte che evidentemente dovrebbe avere una validità universale?

Il sospetto sulla relatività della musica è alimentato proprio da questa sua particolare condizione di non esistere se non attuata nell’esecuzione di un interprete, e dalla disparità di giudizi, anzi, di genuine impressioni che una medesima esecuzione può produrre.

Ma questa disparità si arresta lì, sull’esecuzione, e non ha presa sulla realtà dell’opera stessa.

Infatti la diversità d’impressioni di fronte a una medesima esecuzione dipende da quella che si suol chiamare la «competenza» dell’ascoltatore, ossia dalla maggiore o minore conoscenza dell’opera eseguita; dipende dal minore o maggiore bisogno che si abbia dell’opera dell’interprete per venire a contatto con la musica. Il cosiddetto «incompetente», cioè colui che conosce poco una determinata sinfonia di Beethoven, perché ne ha sentito poche esecuzioni, e perché non ha mai avuto l’occasione o la capacità di leggerne la partitura o di suonarsela al pianoforte, deve affidarsi interamente all’opera dell’interprete per venire, in un modo qualsiasi, a conoscenza della concezione di Beethoven, per averne la rivelazione. L’opera dell’interprete gli è assolutamente necessaria, senza di che la sinfonia in questione resterebbe per lui lettera morta. Perciò, anche se l’esecuzione sarà largamente difettosa, è chiaro che in confronto al niente assoluto delle sue precedenti cognizioni, essa rappresenterà per l’ascoltatore cosiddetto incompetente un potente ausilio, uno strumento indispensabile per entrare in contatto con la realtà fisica di quella sinfonia di Beethoven e compierne poi la propria «interpretazione». Per mettere la cosa in termini di grossolana e ridicola evidenza numerica: se l’esecuzione di quell’interprete si discosta dall’autentica realtà della concezione artistica beethoveniana in una misura, diciamo, del trenta per cento, l’ascoltatore per il quale la sinfonia di Beethoven non esisteva affatto senza l’esecuzione, avrà sempre la rivelazione di quel settanta per cento che in tale sciagurata esecuzione si è salvato: e si capisce che è sempre tal cosa da produrre in un animo sensibile alla musica il più sincero e giustificato entusiasmo.

Invece il cosiddetto competente non ha bisogno dell’esecuzione per ricondursi alla mente una determinata sinfonia di Beethoven: l’ha sentita decine, forse centinaia di volte; l’ha studiata al pianoforte; ne ha analizzata la partitura. La sinfonia gli si configura per intero nella memoria, egli sa come si allacciano e come si sviluppano i temi, sa come suonano gli strumenti, ricorda ogni minimo effetto. In una cattiva esecuzione egli non può quindi badare a quel settanta per cento dell’opera che pure vi si salva: fatalmente egli non avrà orecchi che per quel trenta per cento che l’interprete maldestro ha sciupato e distrutto; e la mancanza di questo trenta per cento gli impedisce di ritrovare la sinfonia di Beethoven, ch’egli possiede per interno nella sua memoria, senza bisogno dell’aiuto di nessuna esecuzione. Perciò avviene che la genuina emozione estetica, il brivido del contatto con l’opera d’arte, l’incompetente lo possa ricevere anche da esecuzioni mediocri; mentre al competente non sarà più concesso che in circostanze estremamente favorevoli, in esecuzioni che per lo meno pareggino la sua conoscenza di quella determinata opera d’arte. Senza che la realtà di quest’ultima venga per questo minimamente compromessa e tirata nei gorghi di una pericolosa relatività.

So bene che ragionare per analogie è per lo più un’illusione. Tuttavia può servire se non altro per dare un’evidenza, una corpulenza fantastica a un ragionamento già fatto in termini propri. Supponiamo il caso di due studiosi di storia dell’arte, uno dei quali viva a Firenze – anzi, poniamo che sia il direttore della Galleria degli Uffizi e che tutti i giorni la debba attraversare per recarsi nel suo ufficio –; l’altro, invece, supponiamo viva in Nuova Zelanda, sia un distinto professore dell’Università di Wellington. Ora immaginiamo la posizione e le reazioni di questi due individui di fronte a una buona riproduzione a colori, un’artistica quadricromia della Venere di Botticelli.

Il professore italiano vede tutti i giorni l’originale, mentre attraversa la Galleria degli Uffizi per recarsi al lavoro: è facile se ne che, della riproduzione a colori, per quanto bene essa sia eseguita, gli salteranno subito all’occhio tutti i difetti, tutte le piccole infedeltà, tutte le divergenze dall’originale. Questo cartoncino colorato, che avrà magari i medesimi colori del quadro, o quasi, ma non ne ha più la pasta, la sostanza, le dimensioni, non sarà per lui un aiuto a ricordare, e tanto meno a comprendere e a gustare il quadro: al contrario, sarà un impaccio intollerabile, una doccia fredda; egli se ne distoglierà con impazienza e dispetto, perché quest’immagine deformata non guasti la perfetta realtà dell’opera d’arte ch’egli porta in sé.

Prendiamo ora il professore neozelandese: lui, poverino, l’originale del Botticelli l’ha visto una sola volta, quando fece il suo univo viaggio in Europa, da giovane, con una borsa di studio. Allora ci si era fermato davanti molte ore, l’aveva silenziosamente assimilato attraverso la vista. Ma da allora son passati tanti anni: la memoria svanisce, i particolari sfuggono, resta il ricordo di quella meravigliosa emozione, ma la sostanza ne è dileguata. Nella riproduzione in quadricromia il nostro neozelandese non percepisce prima di tutto i difetti: essa costituisce per lui un potente ausilio a rimemorarsi la realtà del quadro vero e a rinnovarne in sé l’esperienza estetica.

Nella stessa situazione di questi due ipotetici personaggi rispetto alla riproduzione a colori della Venere di Botticelli si trovano gli ascoltatori d’una cattiva esecuzione beethoveniana, a seconda che conoscano molto o poco la sinfonia eseguita.
(1949)

Testo tratto da: Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, Einaudi, 2001 (1a edizione 1950), pp. 173-176

Massimo Mila (Torino, 14 agosto 1910 – Ivi, 26 dicembre 1988) è stato professore incaricato nell'Università di Torino, dove fondò l'Istituto di Storia della Musica. Bocciato nel concorso nazionale per titoli a una cattedra ordinaria, fu accademico di Santa Cecilia e accademico delle Scienze. Nel 1986 ottenne il Premio internazionale dei Lincei per la critica e la poesia. Collaboratore di riviste e giornali, è stato critico musicale de «La Stampa». Presso Einaudi ha pubblicato: L'esperienza musicale e l'estetica (1950 e 2001), Gli eroi del Chomolungma (1954), Cronache musicali 1955-1959 (1959), Breve storia della musica (1963), Maderna musicista europeo (1976), Lettura della Nona Sinfonia (1977), Lettura delle «Nozze di Figaro» (1979),L'arte di Verdi (1980), Compagno Strawinsky (1983), Lettura del Don Giovanni di Mozart (1988), Lettura del Flauto magico (1989), Scritti di montagna (1992), Brahms e Wagner (1994), Scritti civili (1995), L'arte di Béla Bartók, Guillaume Dufay (1997), Argomenti strettamente famigliari: Lettere dal carcere 1935-1940 (1999), Mozart. Saggi 1941-1987 (2006), I quartetti di Mozart (2009) e Le sinfonie di Mozart.


A.B.