venerdì 17 febbraio 2017

“Il ritorno di Ulisse in patria” di Claudio Monteverdi

Breve guida all’ascolto e trama


Il ritorno di Ulisse in patria
Tragedia di lieto fine in un prologo e tre atti

Musica
Claudio Monteverdi (Cremona, 15 maggio 1567 – Venezia, 29 novembre 1643)

Libretto
Giacomo Badoaro (Venezia, 1602  – Venezia, 1654), dai libri XIII-XXIII dell’Odissea

Prima rappresentazione
Venezia, Teatro Ss Giovanni e Paolo, 1640


Personaggi
L’Humana Fragilità (Alto)
Il Tempo (Basso)
La Fortuna (Soprano)
Amore (Soprano)
Giove (tenore)
Nettuno (Basso)
Minerva (Soprano)
Giunone (Soprano)
Ulisse (Tenore)
Penelope (Soprano)
Telemaco (Tenore)
Antinoo (Basso)
Pisandro (Tenore)
Anfinomo (Alto)
Eurimaco (Alto)
Melanto (Soprano)
Eumete (Tenore)
Iro (Tenore)
Ericlea (Alto)

Coro di Feaci, Coro di Celesti e Coro di Marittimi



La vicenda si svolge a Itaca, isola del Mar Ionio

Argomento

Prologo
L’Humana Fragilità, contrapposta al Tempo, alla Fortuna e all’Amore, deplora la sua condizione mortale.


Atto I
Nel Palazzo Reale di Itaca Penelope si lamenta con Ericlea, vecchia nutrice di Ulisse, per la sofferenza causata dalla lunga assenza dello sposo ( “Di misera regina”). Nel frattampo, l’ancella Melanto e il suo amante Eurimaco cantano l’amore che li unisce,  sperando che la regina scelga presto un nuovo sposo, per potersi abbandonare liberamente alla loro passione. Nettuno, in colleta con Ulisse perché colpevole di aver accecato suo figlio Polifemo, intende punire i Feaci per aver aiutato l’eroe e ottiene da Giove l’autorizzazione a vendicarsi. I Feaci, intanto, sbarcano sulla spiaggia di Itaca dove depongono Ulisse dormiente; riprendono il mare intonando una canzonetta (“In questo basso mondo”), ma la loro nave viene trasformata in scoglio da Nettuno. Ulisse si sveglia e, ritrovandosi solo su una spiaggia sconosciuta, rimprovera gli dei e i Feaci d’averlo abbandonato. Sotto le spoglie di un pastore, gli appare Minerva, che gli rivela di essere a Itaca, rivela di essere la dea e gli indica come compiere la sua vendetta: travestito da vecchio mendicante si recherà alla reggia, dove potrà rendersi conto delle mire dei Proci e della fedeltà di Penelope. La dea invita anche Ulisse a recarsi presso la fonte Aretusa per incontrare il suo vecchio servitore Eumete e per attendere il ritorno del figlio Telemaco. Melanto tenta, invano, di convincere Penelope a dimenticare Ulisse e ad accettare le offerte dei pretendenti. Eumete, solo presso la fonte, compiange il destino dei re ed elogia la semplice vita agreste (“Colli, campagne e boschi!”): all’improvviso compare Ulisse, negli abiti di un vecchio mendicante; chiede ospitalità a Eumete e gli annuncia il prossimo ritorno del suo padrone.

Atto II
Telemaco, tornato da Sparta dove si è recato a cercare notizie del padre, viene condotto da Minerva a Itaca ed è accolto da Eumete, emozionato, che lo informa sulla premonizione del misterioso ospite. Telemaco e Ulisse restano soli: il padre riprende le sue vere sembianze e si fa riconoscere dal figlio: i due si abbandonano alla gioia d’essersi ritrovati (“O padre sospirato!”). Nel frattempo, i Proci fanno nuove offerte di matrimonio a Penelope (“Ama dunque, sì, sì”), che rifiuta sdegnosamente. Giunge a palazzo Eumete, che annuncia a Penelope l’arrivo del figlio e l’imminente ritorno di Ulisse. I Proci, resi inquieti dalla notizia, progettano di uccidere Telemaco, ma un’aquila che vola sopra il loro capo, presagio di sventura, li dissuade. Ulisse, rimasto solo in un bosco, vede comparire Minerva, che gli assicura nuovamente la sua protezione e lo informa che ispirerà a Penelope l’idea della gara con l’arco, grazie alla quale Ulisse potrà uccidere i Proci. Scomparsa la dea, Eumete giunge dal Palazzo e racconta a Ulisse che il solo suo nome ha gettato nel terrore i pretendenti. Telemaco racconta a Penelope del suo viaggio a Sparta e del suo incontro con Elena di Troia, ma la donna è irritata dalla descrizione della bellezza di Elena. Giungono a corte Eumete e il finto mendicante che provoca il risentimento di Iro: i due si azzuffano, ma vince Ulisse. La regina propone ai pretendenti la prova dell’arco: nessuno riesce a tenderlo tranne il finto mendicante, che con quell’arma inizia la strage dei Proci.

Atto III
Iro, terrorizzato, descrive il massacro appena compiuto e Melanto invita Penelope a vendicare la strage. Eumete rivela a Penelope la vera identità del mendicante, ma si scontra con il suo scetticismo. Minerva persuade Giunone a intercedere presso Giove perché plachi il furore del dio del mare e metta fine alle peripezie di Ulisse: grazie all’intercessione di Giove, Nettuno accorda il suo perdono. Nel frattempo, a Palazzo, Eumete e Telemaco tentano ancora invano, di convincere l’incredula regina: infine, appare Ulisse nelle sue vere sembianze. Penelope è ancora riluttante, ma la descrizione del drappo nuziale, noto solamente a lei e a Ulisse, la convince dell’identità del suo sposo. Ulisse e Penelope danno libero sfogo alla gioia di essersi ritrovati. (“Illustratevi o cieli”).


Libretto

Il libretto di Giacomo Badoaro, amico di Monteverdi e membro dell’Accademia degli Incogniti, segue fedelmente i libri XII-XXIII dell’Odissea. Per il libretto completo vai QUI.



Hanno detto su Il ritorno di Ulisse in patria
[…] Il testo, dall’ultima parte dell’Odissea di Omero, racconta una vicenda che tutti conoscono: Ulisse approdato sulla sua isola Itaca viene trasformato da Minerva in un vecchio mendicante per poter controllare la fedeltà della sposa e sbarazzarsi di cortigiani, parassiti e pretendenti – i malcapitati Proci - che volevano prendergli il regno attraverso il matrimonio con la sua sposa, presunta vedova. Il lento e accorto svelamento dell’identità dell’astuto sovrano, che si aggira in incognito, avviene sullo sfondo delle trame dei vendicativi dèi greci che si arrogavano il potere di guidare i destini dell’eroe omerico. (Nettuno, dio del mare, per esempio, ce l’aveva con Ulisse perché gli aveva accecato il figlio Polifemo e lo ostacolava pertanto in ogni modo). Il pubblico della repubblica marinara del Seicento non poteva non entusiasmarsi per il finale approdo in patria del più antico navigatore della storia della letteratura, commuoversi per la fedeltà degli umili al loro signore e gioire per la strage degli sfacciati Proci nella mitica gara con l’arco, cui segue il riconoscimento di Ulisse da parte di Penelope. All’inizio del Novecento si pensava che l’opera non fosse neppure di Monteverdi, o in gran parte apocrifa. L’unica copia manoscritta che esiste dell’Ulisse è conservata a Vienna ed è purtroppo redatta da un copista. La precisa ricostruzione della genesi dell’opera è stata fatta solo nel 2007 sulla base dei dodici libretti originali manoscritti. È in effetti opera di Monteverdi, anche se nelle riprese degli anni successivi alla prima assoluta del 1640 venne trasformata dai cinque atti originali in un prologo e tre atti, come va in scena ora alla Scala, per quanto gli ultimi due siano accorpati per fare un solo intervallo. Un’opera che ha oltre quattrocento anni ha dato ai musicologi non pochi problemi di ricostruzione. Si tratta di spartiti con una linea di canto e un basso, da cui si deve ricostruire l’armonia, la strumentazione e aggiungere alcuni abbellimenti al belcanto. […]
Franco Pulcini, Un Ulisse delle Repubbliche Marinare (da: teatroallascala.org)

La prima opera scritta da Monteverdi per un teatro di Venezia, all’epoca in cui nella città lagunare andava consolidandosi il sistema dei teatri pubblici a pagamento, segna una distanza enorme dall’Orfeo, la favola pastorale dal semplice intreccio preparata tanti anni prima per la corte di Mantova. Il ritorno di Ulisse in patria è un’opera dall’ordito complesso, ricca di trame secondarie, che preannuncia gli sviluppi della futura “opera seria” facendo appello al virtuosismo canoro e a forme chiuse convenzionali. Un’opera barocca a pieno titolo, insomma. […]Della partitura è sopravvissuto un solo manoscritto, conservato a  Vienna, che presenta peraltro cospicue differenze rispetto alla dozzina di libretti manoscritti pervenutici (a cominciare dal fatto che la partitura è in tre atti, i libretti in cinque). La capacità monteverdiana di muovere gli affetti grazie alla rappresentazione di personaggi reali, profondamente umani, trova in quest’opera la sua massima espressione. Le figure che agiscono sulla scena sono tratteggiate individualmente, dal librettista innanzitutto ma ancor più dal compositore. Ognuna di esse parla, agisce e si esprime vocalmente nei modi più adatti al suo rango e al suo carattere. Le divinità e i personaggi nobili, come Ulisse e Penelope, comunicano nello stile ‘alto’ e tragico del recitativo severo o del canto melismatico. L’ancella Melanto e il suo amante Eurimaco prediligono invece le facili canzonette.Antinoo, uno dei pretendenti, adotta un canto ricco di sbalzi che ne rivela sì la condizione sociale elevata, ma anche la degenerazione morale. Lo stile vocale del pastore Eumete, che compie l’apologia della vita agreste, ne rende manifesta la condizione sociale inferiore, ma anche la profonda civiltà (senza contare che nelle sue parole si avvertono echi della polemica anticortigiana e antimonarchica presente in molti altri libretti messi in musica per i teatri della Serenissima). Ma il registro stilistico adottato di volta in volta dai personaggi è anche funzionale al racconto. Così si spiega il fatto che un personaggio abbandoni talvolta il suo registro abituale per abbracciarne un altro. […] L’umanità dei personaggi, le loro reazioni emotive, il loro adattarsi alle situazioni drammatiche non fanno che amplificare il potere espressivo dell’opera monteverdiana. Il ritorno di Ulisse in patria è un vero dramma in musica: le strutture elaborate, che puntano all’effetto scenico, gli ampi mezzi musicali sono posti al servizio del dramma, in funzione del quale ogni sezione della partitura giustifica se stessa e la sua forma. La musica non è dunque pura e astratta costruzione destinata a sedurre l’orecchio, ma assume su di sé una funzione ‘rappresentativa’; ciascun personaggio – qui stanno l’intuizione fondamentale del teatro in musica, e la modernità della partitura monteverdiana – si investe di ciò che canta, esprimendosi in quanto personalità autonoma. Una  concezione simile richiede, per forza di cose, un linguaggio musicale realistico. Ecco perché nel Ritorno di Ulisse in patria la distinzione tra recitativo e aria è poco sensibile: l’uno trapassa frequentemente nell’altra e viceversa; inoltre il recitativo è ricco di momenti lirici, o di stacchi ritmici e incisivi che prendono il via quando il testo suggerisce una più alta temperatura emotiva, per ricadere poi nella declamazione libera. Si realizza, in questo modo, l’antica utopia della parola e della musica che si legano indissolubilmente nell’espressione degli affetti.
Claudio Toscani, Il ritorno di Ulisse in patria. L’opera in breve (Da: teatroallascala.org)

       Adriana Benignetti